Produrre uno spumante di qualità richiede una serie di scelte agronomiche ed enologiche mirate, che partono molto prima della vendemmia e trovano la loro sintesi in cantina. Le basi sono tre: equilibrio tra zuccheri e acidità, integrità della materia prima e capacità di trasformare il vino base in un prodotto capace di evolvere nel tempo.
Questi temi sono stati al centro del convegno “Quando il Verdicchio si fa Spumante”, che ha inaugurato sabato 27 settembre la rassegna Il Grande Verdicchio a Cupramontana, organizzata da FISAR Castelli di Jesi. All’Interno del Museo Internazionale dell’Etichetta, Giampaolo Zuliani – autore del volume “Sciampagna. Lo spumante classico italiano” – e l’enologo Agostino Pisani hanno offerto uno sguardo tecnico e culturale sul futuro delle bollicine italiane, con particolare attenzione al Verdicchio.
Spumantizzare: un’arte che parte dalla terra
Pisani ha sottolineato come la selezione del terreno, e poi del vigneto, rappresenti la prima discriminante: «Non tutte le varietà sono adatte alla spumantizzazione: occorre un equilibrio tra zuccheri e acidità, con uve capaci di raggiungere la maturazione zuccherina senza perdere freschezza». Per il Verdicchio, il momento ottimale di raccolta si colloca intorno ai 16 gradi babo, così da ottenere basi con 11–11,5 gradi alcol e un’acidità complessiva che può arrivare a 8-9 g/l di acido tartarico. La raccolta, preferibilmente manuale, garantisce l’integrità dei grappoli e riduce i rischi di ammostamento.
In cantina la pressatura soffice e non invasiva permette di ottenere mosti di maggiore qualità, spesso selezionati in frazioni per destinare solo la parte più fine alla spumantizzazione. La fermentazione deve avvenire poi a temperature controllate, evitando estremi, per preservare le caratteristiche originarie. L’intervento enologico, secondo Pisani, deve essere minimo: l’obiettivo è «preservare ciò che si aveva in partenza». L’affinamento sui lieviti, tanto più lungo quanto più si ricerca complessità, favorisce la creazione di spumanti eleganti, con bollicine fini e note evolutive di grande interesse.
Champagne e Spumante italiano
Il confronto con la Francia è inevitabile. Come ha ricordato Zuliani, lo Champagne si fonda su un cuore unico, consolidato da secoli di storia e da un’immagine simbolica fortissima, che spesso si accompagna a un’“idea di vino” oltre che al vino stesso.
L’Italia, invece, ha seguito una via diversa: non un’unica denominazione, ma una costellazione di poli locali – dall’Astigiano alla Franciacorta, dall’Etna alle Marche – ognuno capace di valorizzare le proprie varietà autoctone. È in questa pluralità che il Verdicchio trova spazio, portando con sé una tradizione spumantistica documentata già nell’Ottocento con Ubaldo Rosi e rilanciata negli anni Settanta da Carlo Pigini e Luigi Ghislieri a capo della Colonnara.
La degustazione conclusiva di quattro etichette – Poderi Mattioli, Ca’Liptra, Vallerosa Bonci e Colonnara – ha mostrato concretamente le potenzialità del vitigno: vini verticali e tesi nei dosaggi zero, più ampi e complessi nei Brut, tutti caratterizzati da freschezza, longevità e una straordinaria capacità di abbinamento.
La lezione emersa è così chiara: per produrre un grande spumante italiano non serve imitare lo Champagne, ma leggere il territorio, conoscere il vitigno e valorizzarne le peculiarità: “è la via che il Verdicchio ha già intrapreso, dimostrando di poter diventare un riferimento nazionale nella spumantizzazione di qualità“.