Due frutti simbolo dell’estate, capaci di accompagnare la tavola ben oltre la stagione più calda: sono il meloncino e l’anguria di Massignano, due varietà locali che, grazie al lavoro della famiglia Malavolta, continuano a vivere e ad arricchire la biodiversità agricola del territorio. Nel piccolo borgo in provincia di Ascoli Piceno, infatti, l’azienda agricola Malavolta è custode di ben sette varietà iscritte al registro regionale della biodiversità, tra cui il porro, la taccola, la mela crucchiola, la pesca limone e la mela rosa.

“Tutti provengono da sementi autoriproducenti – spiega Enzo Malavolta -. Sono varietà che hanno più di cinquant’anni di storia, con aneddoti che ne testimoniano il ruolo nella vita del territorio. Siamo orgogliosi di custodirle e di tramandarle, anno dopo anno”.
Il Meloncino di Massignano
Recuperato dal padre di Enzo, Patrizio Malavolta, negli anni Cinquanta, il meloncino di Massignano è una varietà retata, piccola e compatta, che la famiglia coltiva da oltre settant’anni. Si tratta di una semente autoriproducente, ormai adattata perfettamente al territorio collinare e costiero di Massignano, tanto da non richiedere trattamenti chimici.
Il frutto si presenta con buccia giallo-verde, retata, dal peso medio tra 1,4 e 2 kg, mentre la polpa è soda e zuccherina. La raccolta avviene tra la fine di agosto e la metà di settembre e, una volta raccolto, si conserva per circa due settimane.
“Quando nel 2000 portammo il meloncino in Sicilia – racconta Enzo – gli agricoltori locali lo giudicarono subito valido e nutriente. Uno di loro mi disse che la sua dolcezza e la sua sapidità erano addirittura superiori a quelli tipici della loro zona”.
Coltivato su circa 1000 metri quadrati l’anno, il meloncino non è destinato alla grande distribuzione ma esclusivamente alla vendita diretta, scelta che permette di preservarne autenticità e valore, anche se con margini economici ridotti.
L’Anguria di Massignano
Storia ancora più antica accompagna l’anguria di Massignano, conosciuta localmente come cocomero. Le prime coltivazioni risalgono agli anni Venti, quando Lorenzo Malavolta, nonno di Enzo, la inserì con successo nell’avvicendamento colturale dell’azienda agricola.
L’anguria trovò da subito un mercato florido, tanto locale quanto nazionale ed europeo. Parte della produzione, infatti, veniva esportata in Germania grazie ai treni merci che partivano dalla stazione ferroviaria di Pedaso, allora punto di raccolta per i prodotti ortofrutticoli della Valdaso.
“Il cocomero – racconta Enzo – era il fiore all’occhiello di mio nonno. Amava ricordare un episodio: durante un trasporto con un carretto trainato dai buoi, un intero carico di angurie si rovesciò lungo la strada. Fu un danno, certo, ma anche l’occasione per brindare all’abbondanza del raccolto con tanti bicchieri di vino”.
Di forma sferica e dimensioni più ridotte rispetto agli ibridi moderni, l’anguria di Massignano è molto zuccherina. La raccolta è scalare, da agosto fino a novembre, caratteristica che la rende particolarmente preziosa e capace di prolungare la stagione estiva. Un tempo era talmente ricercata che veniva persino rubata dai campi, segno di quanto fosse apprezzata.
Frutti che raccontano un territorio
Ci sono colture che non seguono le logiche della produttività immediata, ma quelle più lente e profonde della memoria. Il meloncino e l’anguria di Massignano appartengono a questa categoria: frutti che continuano a vivere grazie a sementi tramandate, capaci di adattarsi al territorio senza bisogno di forzature o sostegni esterni. Sono esempi di un’agricoltura che non chiede altro se non il tempo e l’esperienza accumulata dalle generazioni, e che restituisce in cambio sapori autentici e una biodiversità preziosa.
Il lavoro come quello svolto dalla famiglia Malavolta, che da decenni custodisce e coltiva queste varietà, rappresenta una scelta di “rispetto per il territorio“. Ogni raccolto è una testimonianza della capacità della natura di rigenerarsi e di trovare da sé le risorse per sopravvivere. Conservare queste colture significa non solo preservare un patrimonio agricolo locale, ma anche mantenere vivo un legame identitario con la comunità, che attraverso questi frutti continua a riconoscersi e a raccontarsi.









