Uno tra i primi elementi che contraddistinguono le nazioni che vogliono considerarsi “grandi” è l’autosufficienza alimentare. Aspetto indispensabile sul quale per secoli si sono concentrati gli sforzi, e le riforme, di governi e cancellerie nazionali, anche nel nostro paese. Da qualche decennio, però, l’avvento di una globalizzazione sempre più spinta ci aveva, forse, illuso che produrre cibo fosse una cosa facilmente delocalizzabile verso paesi terzi, magari meno sviluppati. Un nuovo orientamento della politica economica che ha posto la fornitura di servizi al centro della strategia industriale europea, ed italiana, sacrificando tutto ciò che fosse produzione, in particolar modo agricola. Oggi, però, stanno emergendo tutte le fragilità di tali errate convinzioni, soprattutto alla luce di una situazione geopolitica non sempre stabile in cui dipendere eccessivamente da fonti di approvvigionamento estero potrebbe essere molto rischioso.
Un rafforzamento dell’autosufficienza produttiva nazionale, quindi, è proprio quello che recentemente è stato chiesto anche nel corso della riunione preliminare all’avvio del Tavolo Zootecnia Bovina da Carne convocata al ministero dell’Agricoltura dall’Organizzazione Interprofessionale della Carne Bovina (OICB), composta da Confagricoltura, CIA-Agricoltori italiani, Copagri, UNICEB, Assalzoo, Assograssi e FIESA Confesercenti.
Fortemente condizionata da fattori internazionali, sanitari e di mercato, la zootecnia bovina italiana da carne ha bisogno di un’azione strutturata. Azione che riduca l’attuale dipendenza dai ristalli esteri – soprattutto dalla Francia, con quasi 800 mila capi l’anno – e che reagisca agli effetti delle tensioni geopolitiche, delle emergenze sanitarie (Blue Tongue e Malattia Emorragica Epizootica) e della crescente competizione internazionale, in particolare nordafricana.
Infatti, sebbene il mercato interno stia registrando un significativo aumento dei prezzi, la carenza di offerta e l’assenza di una filiera nazionale ben strutturata impediscono di cogliere appieno le opportunità di crescita. Nonostante, ad esempio, ampie aree di territorio sarebbe oggi ancora perfettamente vocate ad una zootecnia, anche estensiva, la mancanza di infrastrutture e di una politica economica seria hanno di fatto azzerato ogni possibilità di rilancio.
L’intera fascia dell’appennino umbro/marchigiano, così come le aree interne del centro/sud Italia, potrebbero ancora agevolmente accogliere mandrie bovine in grado di rilanciare quei territori, preservare l’ambiente ed evitarne l’abbandono. Eppure la mancanza di mattatoi, la presenza di lupi che colpiscono i vitelli, le difficoltà con collegamenti e, non ultima, la poca redditività del prodotto scoraggiano nuovi investimenti. Il tracollo che la zootecnia marchigiana ha avuto negli ultimi vent’anni, ne è la prova evidente, nonostante decine di milioni di euro investiti da ogni governo regionale per tentate di rilanciare il settore.
Obiettivo primario rilanciare la c.d linea vacca-vitello ed i ristalli nazionali. Per fare ciò è necessaria, secondo i rappresentanti degli allevatori, l’attivazione di un progetto strutturato che aumenti la produzione interna. Interventi che rilancino la selezione genetica (spesso troppo sottovalutata), investimenti per la creazione di centri di raccolta e di valorizzazione delle aziende presenti nelle aree interne del Paese, semplificazione della burocrazia (sempre più onerosa per gli allevatori). Basti pensare, con riferimento alla regione Marche un tempo florida di allevamenti, le complessità che l’obbligo di apposizione di bolo ruminale (a causa della diffusione della tubercolosi) stanno creando oppure la persistente cecità delle istituzioni di fronte alla cronica mancanza di strutture dove macellare il bestiame senza dover percorrere centinaia di km.
Una ampia serie di azioni ormai indispensabili per ridurre la dipendenza dall’estero ed invertire il trend negativo del tasso di autoapprovvigionamento, che per la prima volta dall’anno scorso è sceso sotto il 40%, con una perdita di 15% negli ultimi cinque anni. Mentre fino al 2019 eravamo ancora in grado di assecondare circa il 53% della domanda interna (cifra comunque già molto modesta rispetto al passato) oggi gli allevamenti italiani bastano a coprire poco più di un terzo della richiesta di carne e derivati. Nelle sole Marche, causa anche il sisma che ha colpito il centro Italia dieci anni fa, si è verificata una riduzione del 20% delle aziende zootecniche con una popolazione bovina complessiva di circa 40.000 capi, in costante calo da oltre un trentennio.
Un vero e proprio tracollo al quale Ministero ed Assessorati all’agricoltura regionali dovranno necessariamente mettere un freno.