La forte crisi che sta investendo l’agricoltura marchigiana, con una perdurante morìa di aziende, un drastico calo dell’occupazione e costanti invocazioni di aiuto di operatori agricoli strozzati da debiti per costi di produzione non più sostenibili, avrebbe dovuto indurre da tempo la politica regionale ad un supplemento di responsabilità. Anche perché proprio dalla Regione passano quelle centinaia di milioni di euro che l’Unione Europea destina al settore primario, confidando nella bontà delle scelte di chi governa il territorio marchigiano.
Una responsabilità che – come ricordato più volte anche da Marche Agricole – dovrebbe concretizzarsi nel sostenere il settore in quelli che sono i suoi punti di forza e su di essi investire per creare filiere, aggregazioni, favorendo competitività e mercati. E nelle Marche, come tutti sanno, i punti di forza – sotto il profilo della quantità di aziende coinvolte ed ettari di terreno lavorati – sono da sempre la produzione di grano duro (eravamo la terza regione d’Italia dopo Puglia e Sicilia) e di girasole (siamo ancora la prima regione della penisola), a cui si aggiunge il settore vitivinicolo ancorché rappresentativo del 2% della produzione nazionale di vino. Tutte produzioni che negli ultimi due anni hanno vissuto fortissime criticità per il pesante aumento dei costi delle materie prime, oltre che del prezzo dell’energia e degli interessi delle banche a cui le imprese agricole si sono dovute rivolgere per restare in attività.
Desta pertanto sorpresa il nuovo comunicato diffuso dall’assessorato regionale all’agricoltura che, trionfalisticamente, annuncia che “sono già 172 le ricette della tradizione marchigiana pervenute per la creazione del Registro delle ricette della cucina marchigiana, uno strumento che ambisce a valorizzare, tutelare e promuovere il patrimonio gastronomico del territorio” e che saranno valutate da una prestigiosa giuria presieduta nientepopodimeno che dall’assessore regionale Andrea Maria Antonini.
“Le oltre 170 ricette già pervenute sono la testimonianza concreta dell’attaccamento dei marchigiani alla propria tradizione culinaria” ha dichiarato quest’ultimo, a cui probabilmente sfugge dove invece si stanno attaccando le imprese agricole grazie a questa politica regionale!
A sfogliare l’elenco dei comunicati sfornati recentemente dall’assessorato regionale all’agricoltura, oltre all’annuncio di proroghe di bandi – che confermano la scarsa appetibilità degli stessi o la difficoltà delle imprese ad aderirvi – le uniche notizie rilevanti risultano essere gli eventi di “Fritto Misto” e di “Come ti cucino il bio”, iniziative gustosamente “mangerecce” a cui, come per le ricette marchigiane, sono andati soldi pubblici che immaginiamo (ma ci piacerebbe essere smentiti) appartenessero a quella dotazione dello Sviluppo Rurale destinato all’agricoltura e alle imprese agricole.
Come non dare ragione allora al Consorzio Agrario di Ancona, punto di riferimento dell’agricoltura marchigiana, che nell’approvazione del bilancio annuale si è così espresso per fotografare lo stato di salute del comparto:
“Purtroppo, i contributi comunitari continuano a diminuire e la Regione Marche, attraverso il PSR o CSR non è riuscita a sostenere le aziende come avrebbe dovuto fare. Anzi, ha perseguito lo stesso percorso degli ultimi 30 anni, indirizzando le risorse in misure poco utili per lo sviluppo del settore. La politica ancora non riesce a comprendere che il grano duro, con il girasole ed il colza, sono le produzioni principali delle Marche e su queste andrebbero convogliate le risorse. Oltre ad un supporto, necessario, per vitivinicoltura e zootecnia. Sfortunatamente, gli investimenti si perdono in mille rivoli ed in mille sagre, manifestazioni e rassegne che hanno molto a che fare con la gastronomia, ma poco con l’agricoltura. Ne sono un esempio, i milioni di euro investiti in trentennio sugli allevamenti bovini. Somme che non sono riuscite ad evitare il progressivo smantellamento del settore zootecnico regionale. Al contrario nessuna risorsa è stata destinata, in maniera organica, al grano duro nonostante si tratti della coltivazione principe delle Marche. Evidentemente né la politica, né la struttura tecnico-burocratica della regione, sono ancora riusciti a cogliere la realtà di questo settore”.