Del porco non si butta via niente

L'epopea dei porchettari di Montegiorgio
Attualità
I libri della terra
di Antonio Prenna

Sono sicuro che l’autore di questo libro – quasi quarantenne nel 1988  – vedendo al cinema (perché allora si andava ancora al cinema) “Gorilla nella nebbia” – con Sigourney Weaver – è saltato sulla poltrona, ripensando agli autisti del vecchio autocarro Fiat 642 di famiglia, alle prese con quel fenomeno atmosferico che tutto avvolge nel niente che appunto è la nebbia del titolo. La nebbia che sembra scomparsa dai luoghi descritti, come il lavoro dei porcà di Montegiorgio raccontato nel libro. L’assonanza con il titolo del film era troppo bella – si sarà detto Enrico Gentili – per non essere sfruttata. Così – presumo – i maiali si sono sostituiti ai gorilla.

Torniamo a bordo del camioncino. Alla guida per un bel tratto c’è Gaetano, il figlio slavo di Paolo, fresco di patente C e Giovanni de Cestó, secondo pilota. Sono una coppia indedita e improvvisata rispetto al solito. Sostituiscono Peppe e Ivo, ammalati di influenza e tutti gli altri – Delio, Nicó de Ciccó, Santì de Jachì- impegnati altrove. Percorrono la SS16 Adriatica , si fermano per un caffè per strada, si danno il cambio e arrivano dalle parti di Rimini. A quei tempi niente autostrada. La direzione è Comacchio dove non mangiano solo anguille, amano anche la carne di maiale, come tanti nel mondo del resto (i corsivi sono citazioni dal libro). La nebbia molto fitta è come quella della scena del nonno, in “Amarcord” di Federico Fellini, quando – perso ormai davanti a casa sua – si chiede: “Dov’è che sono? Mi  sembra di non stare in nessun posto…”.

Attenzione: qui c’è ancora la citazione della scena di un film (mancherebbero i paesaggi nebbiosi di Michelangelo Antonioni, mentre Tonino Guerra è sempre sullo sfondo), perché in queste pagine il cinema nelle storie raccontate è assai presente. Anche indirettamente, solo per associazione.

Con la nebbia scompare il mondo e ti sembra di lottare col nulla, scrive Enrico Gentili. Il camioncino, – stracolmo di canestri pieni a crepare di lattonzoli, cioè maiali appena svezzati, – con al volante stavolta Cestó, per paura di invadere l’altra corsia, accosta troppo sul lato destro della carreggiata. Il mezzo scivola sul bordo, sbandando sulla poca aderenza del terriccio, inclinandosi di colpo sul margine dell’asfalto. Le ceste dei piani più alti si spostano pesantemente in avanti, le bestiole terrorizzate urlano. I due nella cabina sono sballottati come palline del flipper, mentre il mitico autocarro degli anni ‘60 striscia per diversi metri fino a fermarsi, rovesciato in mezzo al niente della Romagna. Gaetano e Giovanni sono illesi. Si sentono miracolati. Sgattaiolano fuori dalla cabina e dopo una bella sequenza di bestemmie, si mettono subito alla ricerca dei maialini superstiti. Diversi sono rimasti schiacciati nell’urto e il sangue invade la scena come in una sequenza splatter di Quentin Tarantino. Non si trovano i maialini della covata de la Valdaso, trafugati e nascosti da un contadino romagnolo – con il suo accento pieno di zeta – e quindi riconsegnati dopo l’intervento dei carabinieri. La solidarietà che si crea con i contadini locali accorsi, l’arrivo del titolare da Montegiorgio in Lancia Appia, la porchetta di ringraziamento al maresciallo siciliano diventato subito un amico. Anche questo sembra  parte di una sceneggiatura. Il camion perso nella nebbia è uno dei tanti episodi picareschi -siamo a un terzo del libro – che costellano la narrazione per niente politically correct, davvero poco adatta ai vegetariani, per esempio.

Merda e bestemmie in gran quantità, nel linguaggio colorito della parlata del fermano-maceratese, stile Il Doppiatore Marchigiano per capirci. Disseminate come intercalare necessario – visto l’ambiente – sulle vicende di cinque soci di una società di fatto, mai registrata, mai ufficializzata davanti a un notaio o nei registri della Camera di Commercio, retta dal padre dell’autore, Lello, capo di fatto, con gli altri, tutti dei Gentili, parenti, parenti stretti, nella peggiore e più efficace tradizione d’economia familiare marchigiana.

Si avverte l’eco di racconti fatti innumerevoli volte al caffè, dal barbiere, in altri infiniti spostamenti un po’ ovunque in tutta Italia – meno le isole – o a tavola nelle occasioni speciali. L’affabulazione condita da tante bestemmie che l’autore – chiamato naturalmente Righetto in famiglia e da tutti – indica anche come  bestemmie felici. Lu Padreternu ce capisce, lo vede che vita facìmo e pó serve pure per rcuscì lu discursu. E giù tante risate. Qui si ride molto. I porchettari erano gente allegra e trovavano il lato comico della vita persino nella tragedia.Il cinema è sempre presente come dicevo, soprattutto nei soprannomi dei tanti personaggi. Ci sono Jean Paul Belmondo, Oliver Hardy, Tyrone Power, Steve Mc Queen, Serge Reggiani, Elvis Presley, confusi nelle fattezze di Ivo e di Paolo, di Leo o di Giulio.

Il cinema è sempre sottotraccia – pur in modo indiretto – anche nel capitolo dedicato all’uccisione del maiale. Anche qui immagino l’autore in sala. Magari nello storico CineManzoni di Montegiorgio, che proprio nel febbraio 2023 ha festeggiato i cento anni dalla prima proiezione. Gentili può aver visto quelle sequenze dai toni quasi documentaristici nella famosissima e crudelissima scena dell’uccisione del maiale in “Novecento” di Bernardo Bertolucci – che sembra un’anticipazione della rappresentazione del mondo contadino fatta da Ermanno Olmi nel suo capolavoro L’albero degli zoccoli” – e gli avranno senz’altro richiamato alla mente le scene di vita vissuta del rituale pagano della “salata” (da altre parti nella Marche viene chiamata “pista”).

Era la festa dei carnivori, evocata dall’autore a partire dal coltellaccio maledetto,  conservato da qualche parte insieme a poche altre cose che si sono salvate da quei tempi eroici. Come l’effige di Sant’Antonio Abate, circondato dagli animali. Forse l’unica cosa da salvare in mezzo a quella massa di rottami e macerie, durante la ristrutturazione a studio della stalla dei maiali molti anni dopo . Il manico di legno, solo un po’ consumato, tiene saldamente l’acciaio con i suoi bagliori inquietanti – scrive Gentili – un acciaio perfettamente lucido, senza la minima traccia di ruggine o d’infrazione. Il coltello, rigonfio nella lama che si allarga minacciosa, artefice di un’orgia rutilante subito dopo l’inizio di un’agghiacciante agonia. Crudeltà e piacere, sadismo e godimento sembrano essere gli ingredienti segreti che rendono questo coltello indistruttibile, continua l’autore, descrivendo poi il rituale dell’uccisione, a metà inverno, come si trattasse di una cerimonia sacrificale. I sanguinacci, il norcino, i grembiuli insanguinati, la macina della carne, lonze, salsicce, salami, prosciutti. Per niente political correcteness, come ho detto prima.

Oggi l’uccisione ha norme e regole che accorciano l’agonia del maiale. “Adesso i maiali sono condotti su una rampa fino ad uno storditore di gas CO2. Una volta incoscienti, vengono fatti scivolare delicatamente in una mangiatoia. Da lì vengono appesi a testa in giù su un sistema di binari sopraelevato, ancora incoscienti o addormentati. Li uccidiamo facendo scivolare un coltello dietro la guancia e recidendo la vena giugulare interna e l’arteria carotidea. Devi tenere il tuo coltello affilato come un rasoio, devi farlo scivolare nel collo del maiale, mirare alle sue arterie e vene principali, e affettarle con un movimento minimo. Non vuoi che il maiale riprenda coscienza, o si svegli. Siccome è sospeso a testa in giù sul sistema di rotaie, tutto il sangue scorre fuori finché il suo cuore non smette di battere. E poi è morto. In pratica per il maiale è come addormentarsi e non svegliarsi più. Molto umano.”. Racconta un macellaio industriale (così si definisce) dei nostri tempi, che vive a Woodstock nell’Ontario. Testimonianza raccolta sul web.

foto tratta da www.identitacontadine.com

I tempi cambiano e non sono più apparentemente così ferini. La sensibilità di oggi, così new age, mascherata dietro molta ipocrisia, porta ad agire almeno con delicatezza. Una morte dolce. Troppo umana. Garbo invece non ce n’è nel libro di Gentili, fino al finale che lo vede psicoterapeuta, con lo studio dov’era la porcilaia, dopo il fallimento dell’azienda di famiglia. Perché i tempi si inseguono in modo vorticoso e il mercato stava cambiando, la Comunità Europea aprendo le frontiere e facilitando lo scambio delle merci, creò delle alternative molto allettanti per i salumifici del Nord. Gli stessi che  Lello aveva rifornito fino a quel punto. Nei locali delle stalle – continua l’autore – dove prima molti contadini allevavano due o tre covate di maiali, dopo aver fatto pulizia o aver messo a posto l’impianto elettrico,cominciarono a essere attivate macchine per trapuntare le scarpe. Trasformazioni epocali in un mondo che è cambiato attraversando solo pochi decenni.

Ci sono altri risvolti che diventano malinconici verso l’epilogo, anche se sempre raccontati con il sorriso sulle labbra – il vizio del gioco d’azzardo, le gran mangiate, la passione per le auto e i cavalli, Milano e la Puglia – ma li lascio scoprire al lettore. Gentili dà fondo ai ricordi perchè il testo è fondamentalmente un memoir.

Avevo iniziato a leggere il volume di Gentili spinto dalla curiosità che m’aveva creato quel titolo così bizzarro, senza sapere niente dell’autore. Un regalo ricevuto durante una “cena contadina” a Macerata, organizzata da un gruppo informale di professionisti e appassionati “operativi da tempo per la valorizzazione del territorio attraverso i temi legati all’agricoltura, alla ristorazione e al marketing, con l’obiettivo di raccontare l’identità contadina (di qui il nome del gruppo), riconoscere i valori di cui siamo impastati, tra tradizione e attualità e riconnettere i cittadini al paesaggio circostante”, come recita la loro dichiarazione di intenti sul sito. La ricerca di quella identità anche attraverso libri come questo.

Il retrogusto del libro mi arriva a metà lettura. Ho voglia di contattare l’autore, approfondire quello che c’è dietro la parola scritta. Chiedergli da dove viene la sua verve letteraria. Guardo su Facebook. La mia ricerca finisce subito quando scopro che purtroppo Enrico Gentili  è scomparso  nel 2015. La lettura del suo libro ha avuto da quel momento per me un altro sapore. Questo articolo quindi è dedicato alla memoria di un grande personaggio oltre che bravissimo scrittore.

Leggo dal “Corriere Adriatico”: “ Gentili era noto a Montegiorgio per la sua attività politica (era stato sindaco nel 1987-1988 e in precedenza assessore alla cultura), ma soprattutto per quella di stimatissimo psicologo e psicoterapeuta nello studio che aveva portato avanti nella sua città. Fino al 1993 è stato docente di Psicologia e Pedagogia presso la Scuola infermieri professionali di Fermo. Successivamente ha lavorato come libero professionista e come consulente supervisore del Centro di Pronta Accoglienza Familiare per l’Infanzia Abbandonata della Comunità di Capodarco, ma anche presso il Centro Montessori”.

     Edizioni Simple – Macerata, 2010

 

 

 

 

Tags: Bernardo Bertolucci, Capodarco, Corriere Adriatico, Edzioni Prisma, Enrico Gentili, Ermanno Olmi, Fermo, Gorilla nella nebbia, Identità Contadina, in evidenza, Macerata, maiali, Montegiorgio, Rimini, Tonino Guerra

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