Il pensiero selvatico

Marta Zura- Puntaroni - L'olivastro - effequ edizioni
Attualità
I libri della terra
di Antonio Prenna

Conoscevo già la scrittura di Marta Zura-Puntaroni per aver letto il suo libro di esordio “Grande Era Onirica”, pubblicato da Minimun Fax nel 2017. Già quello sarebbe un libro della terra almeno per l’acronimo – Geo – che si forma dalle iniziali del titolo, anche se il contesto del romanzo  in realtà ha poco a che fare con quel tipo di tematiche, se non di striscio quando la protagonista si avventura con il padre nei boschi attorno a San Severino Marche, dove l’autrice è nata. L’avevo ascoltata in un’intervista alla radio e mi aveva incuriosito – oltre agli argomenti trattati – per il suo accento che rimandava inevitabilmente – nonostante trasparisse solo qua e là – alle Marche. Oh bella, mi son detto, ecco una ragazza delle mie parti. Mi piace la scrittura giovane, l’avventurarmi nelle parole di chi sente l’urgenza di raccontare una storia con spontaneità senza gli artifici – diciamo algoritmici – dell’editing finalizzato al piacere a tutti i costi. Ritrovo di rimando Marta in uno dei miei sopralluoghi. Ha chiamato la protagonista de L’olivastro (effequ edizioni) Caterina. Come Caterina Maldolesi, dell’azienda agricola di Coppo.  Affinità? Semplicemente simpatia e amicizia?  Un omaggio a chi lavora la terra? Spiega Marta (che ho raggiunto tramite il suo profilo di Instagram): “I miei due primi libri – l’altro, del 2020, si intitola “Noi non abbiamo colpa”, sempre per Minimun Fax -sono memoir, quindi romanzi parzialmente autobiografici, dove io e la protagonista, che è anche narratrice, coincide con me e ha il mio nome. Il personaggio di Cate è arrivato senza un nome, ma già da subito sapevo che era una contadina e che era marchigiana. Chiamarla come Caterina Mandolesi, commentando l’amicizia che ci lega da anni e quanto condividiamo di pensiero “politico” sulla provincia e sulla realtà rurale, è venuto naturale”. L’olivastro è un piccolo libro di appena cinquanta pagine, ma dai forti contenuti simbolici. L’immagine di copertina è emblematica. Una ragazza scioglie una delle trecce dei capelli ricci (ricci come quelli della vera Caterina) liberandosi del Padre. Già. La figura paterna che si intreccia – è il caso di dirlo – al racconto fino all’epilogo (che naturalmente non sveleremo). La scena finale – mi scrive Marta – è la prima che mi è venuta in mente. È in quel momento che ho conosciuto Cate e Paci’ (il nome del  padre nel racconto) . Da lì è stato un lavoro a ritroso per cercare di capire come eravamo arrivati a quel punto, cos’era successo. Naturalmente, a posteriori, riesco a riconoscere nel finale un grosso significato simbolico, la consacrazione di Caterina a Persefone, divinità ctonia, che rifiuta l’addomesticazione del selvaggio femminile e trae nutrimento, in una maniera o nell’altra, sia dagli insegnamenti del padre che dagli abusi del patriarcato. Questo è un punto nodale. Il patriarcato, il rapporto con il Padre, è al centro della collana – chiamata Elettra – che il libro di Marta inaugura. Il  complesso di Elettra che si definisce come il desiderio della bambina di possedere il padre e della competizione con la propria madre per il possesso del genitore. Infatti la storia de L’olivastro si sviluppa sui conflitti della protagonista con i genitori. Prima si iscrive a Giurisprudenza a Milano per poi ritornare nelle Marche, fallito ogni tentativo di inserirsi nel tessuto connettivo dell’università e della metropoli. Amicizie sfalsate e un amore che naugrafa piccole storie milanesi portano alla decisione di Caterina di ritornare nella Marche, nella sua campagna, che è quasi un nostos, un ritorno a casa mitologico. Non ho mai vissuto in metropoli per una scelta che all’inizio era inconscia, ma che con il passare del tempo è diventata sempre più consapevole e strutturata – mi racconta Marta.Sono fortemente convinta che le grandi città siano strutture assolutamente insostenibili, sia a livello economico, che  ambientale, che psicologico. Detesto la “fear of missing out” (la paura di essere tagliati fuori) che le città creano, proprio perché quando ero adolescente, vivendo nella provincia marchigiana, avevo sempre l’impressione che ci fosse un altrove dove stavano succedendo cose, e che io, sfortunatamente nata nelle periferie dell’impero, mi stessi perdendo tante occasioni irripetibili. Passati gli anni – conclude –mi sono resa conto che le metropoli campano proprio di questo: dell’illusione che quelli siano i luoghi in cui si deve essere per poter avere le possibilità di realizzare qualche fumoso sogno di successo e rivalsa. Naturalmente non è così. Insomma occorre dire che questo racconto offre davvero tanti spunti di riflessione. Il padre le diceva sempre che lei era come l’olivastro, selvatica e rustica, con frutti piccoli e foglie sfrondate – scrive Marta nel libro verso la conclusione –  però guarda, aggiungeva, indicando l’oliveto – che quelli lì sono tutti olivastri eh! Poi ci innestiamo i rami di cultivar domestici, che fanno le olive grosse e piene d’olio – gli tagliamo tutti i rami e gli infiliamo le marze di quello che volgiamo noi nella corteccia, e così lo obblighiamo a fare quello che diciamo noi. Ecco, questo è puro pensiero selvatico.

[Per il titolo di questo articolo ho parafrasato a mio modo quello di un fondamentale testo di antropologia di Claude Lévi-Strauss – Il pensiero selvaggio – che mi riporta agli studi universitari e che credo ben si adatta al racconto].

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Tags: Caterina Maldolesi, Claude Lévi-Strauss, complesso di Elettra, effequ, Elettra, Grande Era Onirica, in evidenza, Marta Zura- Puntaroni, Minimun fax, olivastro, San Severino Marche

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