Cuore matto, cervello fino!

Vita e morte di un meccanico di campagna
Intorno al Focolare
di Carlo Nardi
Giuseppe Fagotti
Giuseppe Fagotti

Oggi “intorno al focolare” si narra della vita di un meccanico di campagna del secolo scorso. Non un meccanico qualunque, ma il responsabile dell’officina Hercolani Fava Simonetti, situata ad Osimo al ridosso del centralissimo Palazzo settecentesco, sede della famiglia e dell’importante amministrazione agricola.
“Panzetta”, al secolo Giuseppe Fagotti (nonno di chi scrive), era rassicurante. Lo era nel fisico, ben piantato e forte, come dice il soprannome; lo era nell’espressione del viso, calma e decisa; lo era nella considerazione che di lui avevano i mezzadri che dipendevano dalla sua competenza professionale, perché se non c’era “Panzetta” ed in campagna si rompeva qualcosa, non si trebbiava, non si lavorava, ergo “nun se magnava”; lo era nel modo in cui appunto conduceva il suo lavoro che anteponeva a tutto nonostante il suo cuore ballerino gli avesse consigliato un minore impegno. Ma c’erano altri sei cuori che contavano su di lui, quelli dei figli, quindi decise che il suo poteva tranquillamente aspettare.

Giuseppe Fagotti
Giuseppe Fagotti, al secolo “Panzetta”

Era rassicurante, infine, perché pioniere nell’arte dell’arrangiarsi e con le mani sapeva fare di tutto. Saper fare di tutto era dote necessaria, se non indispensabile, nell’arte della oculata conduzione familiare. Il mezzadro, di più in questo caso il meccanico, era praticamente un organismo autosufficiente: vuoi per praticità, vuoi per soddisfazione personale, vuoi infine per l’antica regola che “il denaro deve entrare e non deve uscire dalla casa” (R. Orsetti – “La civiltà contadina nelle Marche del novecento”). Ed avere in casa uno che sa fare di tutto, in tempo di guerra o comunque non certo di opulenza, rassicura molto. Sapeva di meccanica, si arrangiava come falegname e lattoniere e con tutte le faccende che una vita di campagna impone tu sappia fare, abilità gastronomica compresa. Insomma tra lavoro e famiglia, era sempre affaccendato e con il cervello sempre acceso.

Osimo Palazzo Simonelli
Osimo palazzo Simonelli

La base operativa era il Palazzo Simonetti, meraviglioso parco giochi dell’età più spensierata. Cucine economiche da accendere, conigli da accudire, grotte da esplorare, giardino pensile per scorrazzare in bici o dietro ad una palla e dove, un paio di panciutissimi bossi appoggiati alle antiche mura dell’adiacente cantina, fungevano da rassicuranti rifugi in caso di marachella. Insomma il paradiso terrestre con tanto di latteria sempre ben fornita.

“E del sole che trafigge i granai, che ne sai?”, chiede cantando Battisti. Beh, caro Lucio, nulla di nuovo per chi scrive, perché quell’atmosfera ha riscaldato interi pomeriggi passati a scalare montagne di grano, in attesa di essere insaccato.

Ma il ‘sancta sactorum’ del complesso era inevitabilmente l’officina. Se dovesse venir fuori un giorno che Giulio Verne fosse passato di là a prendere ispirazione per i suoi romanzi, la cosa non mi stupirebbe. Un buio ricettacolo squarciato da una luce trasversale, dai toni caravaggeschi, che irrompeva accecante dalle finestre a grata e che, a seconda dell’inclinazione del sole durante l’arco della giornata, illuminava quando l’uno, quando l’altro dei tanti attrezzi presenti, in una successione scenografica degna di una sofisticata regia teatrale. Un tugurio pieno di meccanica incomprensibile ai più, ma non a quello stregone di “Panzetta”. Una bolgia fatta di attrezzi, morse, utensili, mantici, mole, trapani, argani e quant’altro, disposti su vari livelli, come su un palco teatrale nel cui fondale campeggiava, imponente, un sistema a pulegge che era l’ottava, la nona e la decima meraviglia dell’universo. E Lui era l’attore protagonista di questo palcoscenico che, con la sola imposizione della mano su un quadro elettrico, rendeva vivo.

Per chi aveva la fortuna di essere presente, una sorta di ‘Gardaland’ con un po’ più di olio sotto i piedi e scintille nell’aria. L’affabulazione si impadroniva dei presenti che, imbambolati da tanto marchingegno, cercavano di capirci qualcosa in quel vorticar di pulegge, in quel correre di nastri che ne attivavano altri fino all’utensile terminale del complesso sistema. Allora nonno, per togliere dall’imbarazzo l’orda di ragazzini accorsi ad ammirare tanto marchingegno, distribuiva martelli e pezzi di ferro per giocare davanti ad una delle pesantissime incudini! Sì perché un martello ed un’incudine sono giocattoli bellissimi ed estremamente educativi: se non altro ti insegnano che trovarsi in mezzo ai due, non aiuta!

E come lui non ha mai smesso di lavorare, così il suo cuore non ha mai smesso di ballare: l’ultimo decisivo giro di valzer avvenne poco dopo la meritatissima pensione, paradossalmente quando si era preso l’unica vacanza della sua faticosissima vita. Perché Panzetta era una locomotiva e come tutte le locomotive correva sempre, come dice Guccini “anche verso la morte”. Peccato sia successo lontano dalla sua amatissima officina. Sicuramente, se avesse avuto a portata di mano quel quadro elettrico, quelle pulegge, quegli attrezzi, si sarebbe inventato qualche meccanismo da collegarsi sottopelle ad altezza torace: uno come lui, che aveva sistemato motori, valvole e pistoni per una vita, vuoi che non avrebbe rabberciato quel cuore così scarburato? E se questo ne avesse anche limitato la mobilità, non si sarebbe dispiaciuto più di tanto: in fondo era nella sua officina a Piazzanova, con un meraviglioso panorama su quei campi che mille volte aveva calpestato.

 

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