Cos’è un proverbio, quando e dove nasce? Da dove scaturisce questa pillola di saggezza che con quattro parole, spesso in dialetto, racchiude interi trattati di filosofia, sociologia, religione e psicologia? Una prima risposta sintetica ed estremamente esaustiva, ce la dà il vocabolario Treccani che così definisce il proverbio: “Breve motto di larga diffusione ed antica tradizione, che esprime, in forma stringata ed incisiva, un pensiero, una norma, desunti dall’esperienza.”
Punto! Potremmo finirla qua con un tombale “cosa fatta capo ha”, ma siccome “Intorno al focolare”, ed in genere nella vita di campagna, i proverbi volano di bocca in bocca e di generazione in generazione a tramandar saggezza, la questione merita approfondimenti.
Il proverbio ha rappresentato per secoli forse una delle poche, se non l’unica, forma di educazione dedicata alle nuove generazioni. Una sorta di “Bignami” orale (ricordate i libretti riassuntivi da consultare freneticamente la notte prima degli esami?) per tramandare in maniera breve ma estremamente efficace, concetti dettati dall’esperienza e legati agli argomenti più vari come il tempo, gli animali, la vita nei campi, la salute, il matrimonio, i cibi e così via in un infinito elenco di tematiche che sono poi il sale della vita.
La pubblicazione più completa in merito è rappresentata da un libro intitolato “Proverbi Marchigiani” raccolti ed ordinati da Ivo Ciavarini Doni ed edito ad Ancona da Arnaldo Forni nel 1883.
Un’opera di difficile reperimento e giunta fino a noi perché riesumata da una cantina tra tante pubblicazioni di agraria, materie di studio di futuri fattori e sensali, della fine del diciannovesimo secolo. Una preziosa fonte di saggezza popolare verso la quale anche topi e tarme hanno usato clemenza. Una godibile lettura in un italiano risorgimentale che ne aumenta l’afflato di antica e calorosa stesura e che ne rimarca la pagana sacralità. Perché questo e non altro è un proverbio: un dictat tra il sacro ed il profano, un venticello di saggezza ed esperienza, un auspicio ed una sentenza, un augurio ed una iattura. Tutto ed il contrario di tutto racchiuso in un formato portatile e facilmente memorizzabile anche dai soggetti meno abituati alla socialità. Mini dispacci stringati e caustici senza responsorio. Inappellabili sentenze emesse dal popolo che è giudice sovrano e legifera su tutte le materie. Meraviglie grammaticali e sintattiche che volano come piume ma pesano come macigni e discettano su tutto lo scibile umano.
Tra le tante tematiche su cui i proverbi, nella fattispecie quelli marchigiani, pontificano ci soffermeremo su quelli che riguardano la vita agreste, provando a collegarli tra loro in una giocosa sciarada, giusto per ricordarne alcuni dei più comuni.
E allora “non menare il can per l’aia” perché “can che abbaia non morde”, mentre “la gatta presciolosa ha fatto i figli ciechi” e poi “va al lardo e ci lascia lo zampino”.
Attenzione: “Scherza coi fanti ma lascia stare i santi” perché impegnati con le previsioni del tempo: “Santa Bibiana quaranta dì e ‘na settimana, Santa Caterina un passo de gallina e Sant’Anto’ un passo de bo’!” E, a proposito di meteo, forse non tutti sanno che “sotto la neve ci sta il pane, sotto l’acqua ci sta la fame” ma se “il cielo non butta, la terra non frutta” e se tira “curina rimpe la piscina”, mentre “scirocco rimpe il trocco”.
Intanto nel pollaio “chi gallina nasce sempre in terra ruspa” e soprattutto “quanno è troppi i galli a canta’ non se fa mai giorno” anche se “non è notte a Cingoli” (versione moderna del latinissimo “nondum Cinguleis nox venit atra jugis”).
Nel campo manda “buoi dei paesi tuoi” e vacci “a giugno con la falce in pugno” perché “l’erba cattiva nun muore mai”.
In cucina c’è un problema: “meglio un uovo oggi o una gallina domani?” Boh! Di sicuro “gallina vecchia fa buon brodo” perché “la carne vicino all’osso e la terra vicino al fosso”.
Intanto qualcuno per favore chiuda la finestra, infatti “aria, somari e frati mai alle spalle” e poi si sa che “l’aria de fessura porta l’uomo a sepoltura”.
Come ricorda Franco Focante nella sua pubblicazione “Per un bicchiere di vino”, “se vai in cantina fischia” però attento perché “la botte vuota fa più rumore”. Si sa che “il vi’ è la poccia dei vecchi” ma di sicuro “mejo puzza’ de vi’ che de olio santo” però senza esagerare perché “pa’ finchè dura, ma il vi’ con la misura”. Non si può avere “la botte piena e la moje ‘mbriaga” anche se “il vi roscio tenuto al fresco fa’ canta’, anche in tedesco”.
Infine, siccome “è sempre l’ultimo bicchiere quello che te ‘mbriaga”, la chiudiamo qua con la testa che gira confusa, convinti che… “è sempre meglio un marchigiano in casa!”. Salute! Hic!